RASSEGNA STAMPA
IL MANIFESTO - Chi si vergogna di Bolzaneto?
Roma, 26 febbraio 2008
politica o quasi
Chi si vergogna di Bolzaneto?
Ida Dominijanni
In piedi per ore, nudi e con le mani alzate, o a fare il cigno o a
piroettare come ballerine o ad abbaiare come cani per essere meglio
derisi e insultati dalla polizia, dai carabinieri, dai medici.
Intimidazioni politiche e intimidazioni sessuali, schiaffi, colpi alla
nuca. Un salame usato come manganello, o agitato per meglio rendere le
minacce di sodomizzazione. Gentili epiteti come «troia» e «puttana»
alle ragazze, «nano di merda», «nano pedofilo», «nano da circo» a un
disabile, costretto per sovrappiù a farsela addosso dal sadico rifiuto
di accompagnarlo in bagno. Una mano divaricata e spezzata. Nuche prese
a schiaffi e a colpi secchi. Piercing strappati, anche dalle parti
intime. Promesse di morte, al grido di «Ne abbiamo ammazzato uno,
dovevamo ammazzarne cento». Nella caserma di Bolzaneto, in quel di
Genova 2001, dopo l'assassinio di Carlo Giuliani e l'assalto alla
scuola Diaz, questi furono i fatti, secondo la ricostruzione dei pm al
processo che si sta svolgendo in questi giorni. Lo sapevamo dalle
testimonianze, adesso lo sappiamo, come si dice in gergo, dalla
raccolta degli elementi probatori sottoposti a riscontri. Fu dunque
tortura a tutti gli effetti, con tutto il carico di sadismo, sessismo,
pornografia di cui la tortura è fatta. Conviene non volgere lo sguardo
e leggere attentamente questa macabra descrizione: non solo a Abu
Ghraib, non solo a Guantanamo, non solo nelle carceri dove
«spariscono» le vittime delle «rendition» americane, la tortura è
tornata ad essere uno strumento ordinario dello stato d'eccezione
permanente in cui viviamo. «Standard Operation Procedure», normale
procedura, come dice il titolo del documentario su Abu Ghraib di Errol
Morris meritoriamente premiato alla Berlinale, come meritoriamente
Hollywood ha premiato ieri «Taxi to the Dark Side», il documentario di
Alex Gibey su sevizie e morte di un tassista afgano nella base
americana di Bagram, caso d'avvio dell'uso della tortura da parte
dell'amministrazione Bush dopo l'11 settembre. E certo, rivisto adesso
- e non da adesso - il film di Genova appare una sinistra
anticipazione su scala locale di quello che pochi mesi dopo, con l'11
settembre e la guerra al terrorismo, si sarebbe scatenato su scala
globale. Una prova generale, come del resto a molti fu chiaro fin da
subito.
Conviene non volgere lo sguardo e non rimuovere il fatto che a
Bolzaneto quei gesti sono stati eseguiti, quelle parole sono state
dette, quei piercing sono stati strappati, quei corpi sono stati
denudati e derisi e colpiti, da quelle forze dell'ordine che
dovrebbero presidiare lo stato di diritto. E' accaduto, e niente ci
garantisce che non possa riaccadere. E fin qui, il discorso pubblico
si è ben guardato dal seminare qualche parola immunitaria. Genova è
sepolta nella memoria, riemerge solo nelle requisitorie dei pm e nelle
sentenze dei giudici. Storia giudiziaria, questione di ordine
pubblico: non entrerà nei comizi elettorali, come non è mai entrata
nell'agenda politica; non è tema «eticamente sensibile», non c'entra
con la Vita né con la Morte, non è fatta di maiuscole, non sta a cuore
al Vaticano, non agita i teo-con, non si intona col pensiero positivo
del Pd. Alla prima del suo film a Berlino, Errol Morris ha detto che
l'ha girato per dire quanto si vergogna del suo paese. Qualcuno in
sala ha commentato che è troppo poco, che la vergogna è messa in conto
nel gioco delle opinioni della democrazia americana e non impedirà
alle «standard operating procedure» di ripetersi. Può essere, ma chi
si vergogna in Italia di Bolzaneto? Abu Ghraib, sostiene Errol Morris,
forse non fu opera di qualche «mela marcia», come l'amministrazione
Bush ha sostenuto assolvendosi; forse fu il picco di una prassi di
abusi sistematica, e certo fu il sintomo del degrado della tavola dei
valori della democrazia americana. Di che cosa fu sintomo Bolzaneto
quanto alla democrazia italiana, di che cosa picco, chi autorizzò le
«mele marce» di quella caserma, chi ci garantisce che altre mele non
marciscano? Un processo istruisce queste domande, ma sta alla
politica, e a noi tutti, rispondere.